Lectio 8

La Gerusalemme futura

Apocalisse 21

‘     Invocazione dello Spirito Santo:

 

O Spirito Santo,
anima dell’anima mia,
in Te solo posso esclamare: Abbà, Padre.

Sei Tu, o Spirito di Dio,
che mi rendi capace di chiedere
e mi suggerisci che cosa chiedere.

O Spirito d’amore,
suscita in me il desiderio di camminare con Dio:
solo Tu lo puoi suscitare.

O Spirito di santità,
Tu scruti le profondità dell’anima nella quale abiti,
e non sopporti in lei neppure le minime imperfezioni:
bruciale in me, tutte, con il fuoco del tuo amore.

O Spirito dolce e soave,
orienta sempre Tu la mia volontà verso la Tua,
perché la possa conoscere chiaramente,
amare ardentemente e compiere efficacemente. Amen.

 

(San Bernardo)

 

 

 

 

?   Ambientazione:

Al giudizio finale riservato a Satana, alla Morte e agli inferi (cf. Ap 20,1-15) segue in Ap 21 la presentazione paradisiaca della «Gerusalemme nuova». Il nostro autore descrive l’avvento della realtà definitiva, la Gerusalemme celeste, la cui manifestazione coincide con la parusia del Signore. Ormai la storia segnata dal male e dalla sofferenza è passata. Il suo ricordo è svanito: tutto ora è rinnovato da Dio e dal suo amore infinito. Il clima di gioia e di festa caratterizza quest’ultima sezione dell’Apocalisse (Ap 21-22). Il tempo dell’attesa è finito e la speranza dei credenti ormai diventa realtà. Essi vengono accolti in una abitazione nuova, libera, pienamente beatificata. Appare centrale l’immagine femminile della città santa, che domina la sfera celeste: il suo contesto è costituito da un cielo nuovo e della terra nuova. La «nuova Gerusalemme» è presentata nelle vesti di una sposa adorna per il suo sposo. Il veggente viene simbolicamente condotto sulla soglia della città in festa: essa sta per vivere il momento culminante che è rappresentato dalle nozze dell’Agnello. Fermiamo la nostra analisi su Ap 21,1-27 che si articola in due unità: i vv. 1-8: il mondo nuovo; vv. 9-27: la Gerusalemme celeste.

 

&  Brano della Scrittura: Ap 21,1-27

1E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. 2E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. 4E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».

5E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e vere». 6E mi disse: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. 7Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio. 8Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte».

9Poi venne uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli, e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la promessa sposa, la sposa dell’Agnello». 10L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. 11Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. 12È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.

15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali. 17Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. 18Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. 19I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, 20il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. 21E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente.

22In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. 23La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. 24Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. 25Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. 26E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. 27Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello.

 

Æ    Approfondimento esegetico:

Giunto ormai alla fine del suo percorso Giovanni vede «un cielo nuovo e una terra nuova». Ciò che era prima ormai non esiste più (v. 1). In questo scenario si succedono immagini paradisiache, caratterizzate dalla preziosità delle rappresentazioni simboliche. Il «cielo nuovo e la terra nuova» hanno come retrospettiva il racconto della creazione (cf. Gen 1-2) nel quale si descrive l’origine del mondo e la sua armonia che l’Onnipotente ha impresso nell’atto di creare ogni cosa «buona».  Il motivo della creazione nuova è ripreso in diversi contesti anticotestamentari. In Is 43,19 si annuncia: «ecco io faccio una cosa nuova» (43,19) e nell’oracolo di Is 65,17 si ribadisce che il Signore sta «per creare cieli nuovi e terra nuova. Non si ricorderanno più le cose di prima, non torneranno in mente». Dio realizzerà una novità per il suo popolo. Si tratta di una nuova creazione che allude al rinnovamento spirituale del popolo.  A questo motivo sono collegati anche i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cf. Gen 2). Occorre ancora ricordare la simbologia della nuova città, descritta dal profeta Ezechiele e del nuovo tempio che è dimora di Dio (cf. Ez 40; 48). Creazione della nuova terra e restaurazione di Israele rappresentano due motivi presenti nella predicazione profetica.

Colpisce la figura femminile della «città santa», la «Gerusalemme nuova che scende dal cielo pronta come una sposa adorna per il suo sposo (v. 2). Con essa l’autore intende simboleggiare il nuovo ordine spirituale e morale. Il male oramai è stato eliminato e i redenti sperimentano la condizione di grazia e di misericordia partecipata da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona[1]. È l’immagine della «sposa» (nymphē) pronta per le nozze (gamos), bellissima, così come la sposa di cui parlava il profeta Ezechiele (cf. Ez 16): vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. La festa nuziale è espressione dell’ordine nuovo, con il richiamo alla ricchezza del simbolismo nuziale collegato alla celebrazione dell’alleanza tra Yhwh e il suo popolo (cf. anche Ct 6,4). Nel v. 3 una voce potente che proveniva dal trono presenta un’altra immagine «la tenda (skēnē) di Dio con gli uomini». Si evoca il testo di Lv 26, 11 («stabilirò la mia dimora in mezzo a voi»). Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro[2]. Nel v. 4 si ripete l’espressione di Ap 7,16-17 che allude all’oracolo di Is 25,8, ribandendo che nella nuova condizione dei beati non ci sarà più la morte (cf. Ap 20, 14; cf. Is 25,8; 35,10) né saranno presenti altre dimensioni negative quali il lutto, il lamento e affanno. Questi elementi fanno parte ormai del passato che è appartenuto alla vita terrena. La nuova esistenza è segnata in modo definitivo da un mondo nuovo (cf. 2Cor 5,17).

Nel v. 5 è Dio stesso assiso sul trono a pronunciare il compimento della profezia isaiana: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose (kaina poiō panta)» (cf. Is 43,18-19). La rinnovazione è opera di Dio e avviene nel presente (cf. il verbo: «faccio») secondo il suo progetto di amore (cf. Ef 1,10). Segue l’invito a scrivere quanto il veggente sta vedendo e ascoltando, perché «le parole sono certe (fedeli) e vere». Si conferma in questo versetto il ruolo testimoniale del «libro sacro» alla luce del contesto liturgico in cui viene composta l’Apocalisse. Inoltre il binomio «fedele-vero» ricalca gli stessi attributi impiegati per l’alleanza (hesed = fedeltà; hemet = verità). Per due volte anche Cristo è stato definito «fedele e verace» (Ap 3,14; 19,11).  La rivelazione divina prosegue nel v. 6 confermando la realizzazione della nuova creazione precedentemente dichiarata. Segue l’autopresentazione di Dio Padre con la stessa definizione di Ap 1,8: «Io sono l’Alfa e l’Omèga» a cui si aggiunge il secondo binomio: «il Principio e la Fine» (cf. Ap 1,17-18; 2,8; 3,14). Dio è la sorgente da cui sgorga la vita. In questa ottica va interpretato il simbolo di dare da bere gratuitamente alla fonte dell’acqua della vita, così come si legge in Is 55,1. Nella sua provvidenza il Signore elargisce i doni essenziali per soddisfare il desiderio di infinito che l’uomo porta dentro di sé. Tale motivo ritorna in Ap 7,16-17 («non avranno più fame né sete») e 22,1.3 («Dio li guiderà alle fonti delle acque della vita»). Ne. v. 7 si assicura che il vincitore «erediterà i beni». L’espressione non va interpretata in senso giuridico, ma messianico-escatologico: il credente che risulterà vittorioso nel combattimento della fede riceverà in dono da Dio di aver parte alla vita eterna. La formula che accompagna questa affermazione riguarda la paternità divina applicata al vincitore: «io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio» (cf. 2Cor 6,18). Nella tradizione anticotestamentaria la formula era applicata al Messia (cf. 2Sam 7,14): si tratta della promessa che Dio ha fatto al re Davide riguardo la sua discendenza. Lo stesso motivo è ripreso dall’autore della lettera agli Ebrei (cf. Eb 1,5) per presentare il Figlio di Dio. Alla condizione beata dei credenti che hanno ricevuto la salvezza ed ereditato i doni divini si contrappone la sorte negativa di chi ha rifiutato Di e il suo amore. Nel v. 8 si afferma che «per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo». Vengono menzionate otto categorie negative, che riassumono gli atteggiamenti deleteri che escludono dal regno celeste. Nel luogo tragico dove sono finiti la bestia e il falso profeta, finiranno anche tutti coloro che hanno rifiutato la salvezza. Tale condizione definitiva ed irreversibile è detta «seconda morte». Più volte si ribadisce che l’uomo può liberamente escludersi dalla gioia della nuova città (cf. Ap 21,8; 21,27; 22,14-15). La realtà definitiva dell’inferno è la conseguenza di una libera scelta della creatura quando questa scelta è vissuta come rifiuto consapevole. Nei racconti evangelici Gesù usa anche altre immagini per indicare la libertà dell’uomo di rifiutate la salvezza e di perdere in modo irrevocabile la sua comunione eterna con Dio: il restare fuori dalle nozze, l’essere esclusi dalla festa.

La seconda unità (vv. 9-27) si apre con l’apparizione di uno dei sette angeli, che hanno le sette coppe piene degli ultimi (precedenti) sette flagelli (v. 9). L’angelo invita il veggente a contemplare la visione della «città santa» che discende dal cielo. Riprendendo il simbolismo nuziale, la Gerusalemme nuova è definita la «fidanzata» (nymphē), «la sposa (gynaika) dell’Agnello». Va evidenziato come la figura della «Gerusalemme nuova» è posta in parallelismo antitetico con la figura negativa di Babilonia (cf. Ap 17). Al candore celeste della città-sposa, splendente di santità, si contrappone l’immagine della città-prostituta unita alla bestia, totalmente immersa nel male e nel peccato. Nel v. 10 si descrive come l’angelo trasporta il veggente su un monte grande e alto, e da quella postazione gli mostra «la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio»[3]. La scena richiama l’oracolo del profeta Ezechiele, nel cotesto esilico, che vede da un monte altissimo la nuova Gerusalemme e lo splendore del suo nuovo tempio (cf. Ez 40-42). Avendo presente la simbologia ascetica della montagna e la stessa collocazione geografica di Gerusalemme, fondata sulla roccia circondata da monti (cf. Sal 125), l’autore intende evidenziare la presenza di Dio che protegge e benedice il suo popolo (cf. Ez 40,1-2)[4]. Il motivo della gloria (doxa) divina che rende splendente la città santa (v. 10; cf. Is 60,3) ritorna alla fine del capitolo (cf. 21,23) a conferma della realtà trascendente che caratterizza la visione apocalittica. In sintonia con Is 54,11-12 il veggente paragona lo splendore della città a quello di «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (v. 11). La Gerusalemme di cui si parla non corrisponde alla città storica, ma è simbolo della comunità dei credenti (Chiesa) proiettata nella sua dimensione escatologica.

Nei vv. 12-14 vi è la descrizione della Gerusalemme nuova, caratterizzata dalla continuità tra il popolo di Dio dell’Antico Testamento e la comunità della nuova alleanza.  Le mura della nuova Gerusalemme sono grandi e alte. In esse vi sono dodici porte, sormontate da dodici angeli, nelle quali sono scritti i nomi delle dodici tribù di Israele (vv. 12-13). I dodici angeli che stanno sopra queste porte sono figure simboliche, immaginate come custodi della città santa (cf. Is 62,6: «Sulle tue mura, o Gerusalemme, ho posto dei custodi»).  Le mura della città poggiano su dodici basamenti (v. 14). La concatenazione simbolica intende presentare la comunità cristiana, strettamente collegata all’antico popolo di Dio (dodici patriarchi), e fondata sui dodici apostoli dell’Agnello (cf. Ef 2,19-20). Segue la descrizione delle forme, delle misure della città santa (vv. 15-17) e dei materiali con cui è costruita (vv. 18-21). Anche questa descrizione, con le indicazioni dei materiali e delle misure, riveste un valore simbolico[5].

L’autore insiste sulla preziosità della dimora celeste, inserendo un elenco di materiali straordinari usati nel la costruzione del muro della città: i dodici basamenti, le dodici porte e la strada che attraversa la città. L’oro puro e le pietre preziose esprimono lo splendore e la sublimità della città in cui Dio dimora, riflesso della sua stessa gloria (2Cor 3,18)[6].

Nel v. 22 si afferma che nella città non vi è alcun tempio, ma che «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio». L’importante affermazione ricorda il valore spirituale del tempio gerosolimitano, che custodiva la torah, il candelabro e gli arredi sacri a testimonianza della «presenza» (shekinah) di Dio in mezzo al suo popolo. Si tratta di una mediazione tra la trascendenza di Dio e la condizione storica e terrena del popolo. Invece nella dimora escatologica non vi è più la necessità di una mediazione, perché è Dio stesso che eternamente vive con la comunità dei redenti, la sua beatitudine e il suo amore si realizzano nella pienezza e luminosità. Per questo la città è illuminata dalla gloria di Dio e la sua lampada è l’Agnello (v. 23). Si evidenzia la piena comunione tra il Padre (Dio) e il Figlio (l’Agnello), la cui presenza è segno del tempio (cf. l’applicazione paolina ai credenti in 1Cor 3,16).

Nel v. 24 si estende la partecipazione alla beatitudine celeste a tutte le nazioni e i loro re che hanno accolto il dono della salvezza. L’inclusione dei popoli riecheggia l’oracolo di Is 60,3 (cf. Sal 61,10), in cui si presenta nel tempo messianico il grande pellegrinaggio dei popoli del mondo verso Dio. Lo splendore di Gerusalemme illumina tutte le nazioni e questa comunione universale che realizza l’essere famiglia di Dio è significata nella realtà della Chiesa (Ap 7,9). La città santa che accoglie con festa tutti i popoli è una realtà dalle porte sempre aperte (cf. Is 60,11), dove il sole divino è sempre presente e la notte non è più (v. 26; cf. 21,23). La città dalle dodici porte riceverà la gloria e l’onore delle nazioni, ciascuna con la sua peculiarità e la sua storia (v. 26; cf. Is 60,19-22). Gerusalemme è la città dei due popoli e chi entra in essa sperimenta le sue origini (Sal 87). Il v. 27 chiude il capitolo ribandendo che nella città santa «non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità». Il male e le sue declinazioni negative sono stati ormai annientati. Nella Gerusalemme nuova regna solo l’amore divino e vi abitano «quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello».

 

f        Messaggio:

Sulla base dell’analisi di Ap 21,1-27 segnaliamo quattro motivi teologici che riassumono il messaggio del capitolo: 1) Essenza e rappresentazione della beatitudine escatologica; 2) Il rinnovamento del mondo e il simbolismo nuziale; 3) L’immagine della Chiesa celeste; 4) Il tempio e la presenza di Dio.

 

1) Siamo ormai negli ultimi capitoli dell’Apocalisse. Dopo aver assistito al giudizio finale con i quale è stato definitivamente imprigionato Satana e i suoi alleati (cf. Ap 20), la visione giovannea ci fa contemplare la beatitudine escatologica. Vanno sottolineati due aspetti della rappresentazione simbolica. Il primo riguarda il tema della «novità» dei cieli e della terra. La novità assume un valore ontologico, rispetto alla condizione terrestre. L’autore sottolinea come il cielo e la terra che erano prima, ora non sono più. Il superamento del limite temporale e spaziale non implica una riedizione di ciò che è segnato dal peccato e dalla fragilità umana. Vivere la condizione della beatitudine celeste significa entrare in condizione senza tempo né spazio, pienamente illuminata dall’amore divino, che è luce spendente e pienezza di vita. Il secondo aspetto è rappresentato dalla nuova relazione con il mistero di Dio, a cui ogni essere che partecipa della sua beatitudine è ammesso. Pertanto il «paradiso» non consiste in un luogo, non è limitato da un tempo e non è rappresentabile come il «migliore dei mondi possibili». La realtà paradisiaca è espressione della relazione vitale donata dall’Eterno senza tempo, totalmente differente dai modelli relazionali terrestri, pienamente inserita nella circolarità dell’amore trinitario[7].

 

2) Il simbolismo nuziale (alleanza nuziale) rappresenta una espressione efficace, saldamente fondata nella tradizione biblica, per significare il mistero di Dio-Amore che accoglie il suo popolo. Protagonista dell’unione nuziale è il Figlio. La sua missione nel mondo è paragonata al ruolo nuziale dello Sposo (cf. Gv 3,29) che ama la sua sposa, la Chiesa, donando per lei la sua vita (Ef 5,25-30). Egli è il Figlio crocifisso e risorto, Agnello immolato e la Chiesa è presentata come la fidanzata e sposa. L’autore giovanneo fa ricorso alla ricca tradizione biblica, che ci aiuta ad approfondire il valore profondo dell’amore divino. Più che nel Pentateuco, è nella letteratura profetica e sapienziale che il motivo teologico della nuzialità conosce uno sviluppo più accentuato. È Dio stesso a definirsi «sposo» (cf. Is 54,5) per esprimere simbolicamente il suo amore a favore di ogni creatura e in particolare del popolo eletto. Oltre alla storia struggente espressa nel Cantico dei Cantici, dedicata all’epopea dell’amore come simbolo teologico della relazione tra Yhwh e il popolo, l’immagine è presente in altri importanti luoghi, in contesti e con protagonisti diversi, particolarmente nei profeti. In Osea (cf. Os 1-3) si evince la simbologia sponsale applicata al giudizio profetico dell’infedeltà del popolo all’alleanza con Dio. La simbologia nuziale collegata con il tema del cuore ritorna in Geremia ed Ezechiele[8]. La ricchezza del simbolismo nuziale è applicata alla figura messianica di Gesù di Nazaret. Nei vangeli sinottici è Gesù stesso ad autodefinirsi «sposo» (nymphios), parafrasando la propria venuta salvifica nella storia con l’immagine di una festa nuziale[9]. La rilevanza dell’attestazione cristologica è dovuta soprattutto alla presentazione della persona e della missione di Gesù come un «evento nuziale», con un chiaro riferimento al contesto anticotestamentario della relazione tra Dio e il suo popolo. Il tema cristologico della nuzialità è ripreso nel Quarto Vangelo, sia nell’episodio delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12) sia nell’ultima testimonianza del Battista «amico dello sposo» (cf. Gv 3,22-30). Questo motivo è ulteriormente confermato e sviluppato nell’Apocalisse.

 

3) La visione apocalittica fa emergere con maggiore chiarezza la realtà della Chiesa celeste. Essa è presentata anzitutto come il popolo di Dio che ha coraggiosamente testimoniato il Vangelo attraversando le prove e le persecuzioni. La sua presentazione simboleggiata della bellezza della città santa evidenzia tre peculiarità della Chiesa. In primo luogo la comunità dei credenti è definita la «sposa dell’Agnello».  È l’amore oblativo che si declina in una permanente dono dei credenti a Cristo-sposo. Pertanto il centro vitale della vita della comunità è l’amore (agapē). In secondo luogo la Chiesa è segnata dal martirio (martyria), dalla condizione di prova e di lotta contro il male e le potenze infernali. Queste vogliono sedurre i credenti e sovvertire la loro relazione con Dio, generando divisioni ed eresie. Infine la Chiesa è segno di un popolo inclusivo, composto da tutti i popoli che per strade diverse hanno accesso al dono della salvezza. In questo senso la rivelazione della Chiesa celeste infonde a lettore grande speranza.

 

4) Colpisce la simbologia della città santa in cui è assente il tempio. La tradizione biblica fin dalla conquista di Gerusalemme da parte del re Davide e dal suo desiderio di costruire a Gerusalemme una casa per Yhwh, conferma l’importanza del «tempio». Il re Davide pensò ad una casa per collocare l’arca dell’alleanza in Gerusalemme (cf. 2Sam 7,1-2). Fatti i preparativi per la costrizione del tempio sulla collina di Sion, fu Salomone ad edificare e consacrare il tempio di Gerusalemme. Nel corso della storia esso divenne centro vitale del modo ebraico, dimora la shekinah (= presenza divina) di Yhwh, garanzia di protezione, di unità e di prosperità del popolo. Diverse furono nel corso della storia le vicende che coinvolsero il tempio e il servizio sacerdotale. La distruzione del tempio salomonico nel 587 a. C. fu interpretata come giusta punizione a causa del peccato del popolo (cf. Ger 26, 6.18). Il ritorno post-esilico è accompagnato dall’immagine del tempio futuro nella visione di Ezechiele (cf. Ez 40-48) come segno di speranza per la restaurazione nazionale. La nuova costruzione del «secondo tempio» realizzata da Zorobabele nel 515 a. C., permise di ricomporre la dimensione religiosa di Israele nel periodo post-esilico. La presenza del «tempio» è attestata nel ministero di Gesù di Nazaret, soprattutto in relazione al mistero pasquale. Vanno ricordati alcuni aspetti che permettono di capire meglio il rilievo di Ap 21. Nel corso della sua missione il Signore compì il segno della purificazione (cf. Gv 2,14-17), preannunciò la distruzione de tempio (cf. Mt 23,38-39) nella sua morte gli evangelisti segnalarono lo squarcio del velo del tempio (cf. Mt 27,51) prefigurando la realizzazione del «nuovo tempio», che è il corpo stesso del Cristo risorto[10]. In una simile prospettiva si colloca l’autore della lettera agli Ebrei, che afferma come Gesù è penetrato nel santuario del cielo con il proprio sangue (cf. Eb 9,11-14.24) ricoprendo l’ufficio sacerdotale (cf. 4,14). Egli ha offerto il sacrificio «una volta per sempre» (7,26s.) in modo perfetto ed eterno (cf. 8,1.4), divenendo unico mediatore della nuova ed eterna alleanza con Dio (cf. 9,15-28). Alla luce delle indicazioni emerse si comprende il significato dell’assenza del «tempio» nella Gerusalemme celeste. L’immagine nuziale della Gerusalemme celeste in cui «il tempio sarà l’Agnello» (Ap 21,22) conferma che non è più necessaria alcuna mediazione. Ciascun fedele può contemplare Dio «faccia a faccia» vivendo nella piena comunione della Gerusalemme celeste.

 

*** Domande

  • Come viene percepita tra i credenti l’idea del «cielo» e del «paradiso»? Ritieni che la dottrina relativa alle verità ultime del cristianesimo dovrebbe essere maggiormente spiegata e approfondita? Come possiamo accompagnare quanti hanno subito un lutto e si aprono ad un percorso di fede e di speranza?
  • L’impiego del simbolo nuziale è utile per cogliere la peculiarità dell’amore divino per l’umanità. Ritieni che si possa offrire nella catechesi un approfondimento del simbolismo nuziale? Quali sono secondo te gli ambiti in cui si può proporre una catechesi nuziale partendo dalla prospettiva dell’Apocalisse?
  • La città santa, la Gerusalemme nuova è definita la fidanzata e la sposa dell’Agnello. L’autore allude alla realtà corporativa della comunità cristiana che vive nella comunione beatifica di Dio. Quale immagine si ha della Chiesa oggi? Come la comunità celebra il ricordo dei defunti e prega per loro? La Chiesa del cielo accompagna quella terrestre rimanendo in comunione di preghiera: sentiamo vicini i nostri cari in questo cammino che ci vede insieme verso il traguardo finale?
  • In che modo si coglie la «presenza di Dio» nell’esistenza dei credenti? La visione dell’Apocalisse ci conferma che sarà Dio stesso ad essere «presenza luminosa» nella città eterna senza la mediazione di edifici e templi. Siamo chiamati a vivere la Sua presenza significata nell’adorazione eucaristica e nel silenzio mistico. Ritieni che si possano offrire momenti e cammini formativi per aiutare a cogliere la presenza divina nele nostre comunità? In che modo?

[1] Echi della «Gerusalemme celeste», indicata come una città costruita in cielo, si trovano in Eb 12,22, in Gal 4,26 e in Fil 3,20 dove è detto che i cristiani hanno, fin dal presente, accesso a questa città celeste, di cui sono figli.

[2] Al v. 3 diversi commentatori recepiscono la variante al plurale. Al posto della formula «Essi saranno suo popolo» (cf. Eb 8,18; 1Cor 6,16), la variante legge: “ed essi popoli di Lui saranno” (kai aùtoi laoì aùtou esontai), ritenendo che la versione al plurale, richiami la profezia anticotestamentaria che Yhwh sarà il Signore per tutte le nazioni. Si indicherebbe così un allargamento dell’alleanza dall’antico popolo di Israele a tutti i popoli.

[3] Va notato lo sviluppo del parallelismo antitetico tra la visione della grande prostituta (Ap 17, v. 3 e quella della città santa. In Ap 17 il veggente è condotto in spirito dallo stesso angelo nel «deserto» e vede la grande prostituta assisa su sette monti. In Ap 21 la visione si svolge su un «monte grande ed elevato».

[4] Circa l’evocazione delle montagne, nella tradizione biblica si segnaliamo il Sinai (Horeb), il Carmelo e, nel Nuovo Testamento, il monte della trasfigurazione (Mt 17,1-9) e quello della missione della chiesa (28,16-20).

[5] La forma quadrata allude alla perfetta armonia cosmica (i quattro punti cardinali: cf. Ez 43,16; 48,16); ugualmente le misure cubiche richiamano sul modello del «santo dei santi» (cf. 1Re 6,19ss.).  L’angelo misura con una canna (metro) d’oro (simbolo cromatico della liturgia divina) e i numeri indicati sembrano esprimere una simbologia precisa: essi contengono elementi del numero 12, simbolo del popolo di Dio, e di 100, simbolo di grande abbondanza. La menzione di dodicimila stadi è composta dal numero 12 (il numero del nuovo Israele) moltiplicato per 1000 (moltitudine): cioè la moltitudine del popolo di Dio.

[6] La descrizione rimanda ad alcuni brani anticotestamentari: cf. Is 54,11ss.; Ez 28,13; Tb 13,16ss. Altri elementi preziosi sono analoghi alla descrizione del pettorale del sommo sacerdote (cf. Es 28, 17-21; 39, 10-14).

[7] Nel Catechismo della Chiesa Cattolica così si riassume il motivo del «cielo» che è simbolo della condizione paradisiaca: N. 1023: Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono «così come egli è» (1 Gv 3,2), «a faccia a faccia» (1Cor 13,12): […] N. 1024: Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata «il cielo». Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva. N. 1025: Vivere in cielo è «essere con Cristo». Gli eletti vivono «in lui», ma conservando, anzi, trovando la loro vera identità, il loro proprio nome […]. N. 1026: Con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha «aperto» il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui.

  1. 1027:Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione. La Scrittura ce ne parla con immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradiso: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1 Cor2,9).

[8] Segnaliamo cinque profeti che rielaborano la categoria dell’amore nuziale: Malachia (cf. Ml 1,1-3); Isaia (cf. Is 1,21; 5,1); Geremia (2,2; 31,3); Ezechiele (16; 23); Secondo Isaia (54,1-10); Terzo Isaia (cf. 61,1-12).

[9] Cf. Mt 9,15; cf. Mc 2,19-20; Lc 5,33-35.

[10] Sono importanti le indicazioni sul tempio presenti nel Quarto Vangelo: cf. Gv 2,19.21; 4,21s.; 7,37-39; 19,34.