
Da pochi mesi, a ottobre, si è concluso il sinodo della Chiesa Universale. Le Chiese che sono in Italia stanno, a loro volta, concludendo il cammino sinodale che ha caratterizzato questi ultimi anni: agli inizi di aprile si terrà la seconda assemblea sinodale e a maggio, con l’assemblea dei vescovi, si arriverà alle indicazioni operative. Oggi si apre il Giubileo in tutte le diocesi del mondo. Occorre poi aggiungere il cammino diocesano: quest’anno ci siamo proposti di contemplare la Gerusalemme celeste modello di ogni autentica esperienza di fede e di ogni comunità cristiana. Infine ci sono i nostri impegni quotidiani: impegni familiari, lavorativi, sociali, ecclesiali. Detto francamente, c’è il rischio di trovarci in quello che, con un linguaggio laico, si chiama ‘ingorgo istituzionale’. Occorre trovare un filo che unisca tutte le cose altrimenti si ha la sensazione di affogare e soprattutto c’è il rischio di battere l’aria passando da una celebrazione all’altra senza mai incidere nella realtà: e questa è una cosa che mi preoccupa molto!
Il 27 novembre scorso ho avuto un incontro con il consiglio presbiterale, che è il principale organismo di consultazione del Vescovo. Abbiamo preso in esame i Lineamenti del cammino sinodale della chiesa italiana. Una domanda guida tale documento: come annunciare Gesù oggi nel nostro paese? Non sto uscendo fuori tema! La bolla di indizione dell’anno giubilare, proprio all’inizio, afferma: « Per tutti, [questo anno giubilare] possa essere un incontro vivo e personale con il Signore Gesù “porta” di salvezza; con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale ‘nostra speranza » (Spes non confundit, 1)
Ecco il filo che unisce tutto, ecco la parola che riassume e porta ad unità tutte le nostre esperienze: annunciare Gesù! È questo il mandato che Gesù affida agli apostoli e, in ultima analisi, ai credenti di tutti i tempi: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc. 16, 15-16). Anzi, nella Messa Crismale, che è la celebrazione in cui la Chiesa e in particolare la Chiesa Diocesana, è invitata a prendere coscienza di sé stessa, si proclama il Vangelo di Luca: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). L’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinti afferma: «Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1Cor 13,13). Ma quando parla di sé stesso e della missione che Gesù gli ha affidato, nella stessa lettera ai Corinti, afferma: «Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (9, 16-17). E nella lettera ai Romani si autodefinisce “debitore del Vangelo”: «Sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, ad annunciare il Vangelo anche a voi che siete a Roma. Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco» (Rm 1, 14-16). Ecco dunque la parola che dobbiamo avere sempre in mente e che tutto unifica: annunciare il Vangelo.
Un ultimo spunto di riflessione: da dove nasce questa sempre più forte coscienza della nostra missione? I lineamenti del cammino sinodale della Chiesa Italiana partono da un discorso tenuto da Papa Francesco alla Curia Romana (21 dicembre 2019): «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». La sfida che sta davanti a noi è enorme! Quale speranza, di fronte a questa sfida nutro nel mio cuore, come vescovo? Che alla Chiesa Sabina non sia rivolto il rimprovero che Gesù rivolge ai suoi contemporanei: «A chi posso paragonare questa generazione? È simile a bambini che stanno seduti in piazza e, rivolti ai compagni, gridano: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!” È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: È indemoniato. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori”. Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie». (Mt. 11, 16-19).
Come vi dicevo, ho paura che si passi da una celebrazione all’altra senza essere coscienti della realtà e della sfida che questa realtà pone ai credenti. Noi siamo chiamati a confrontarci con questa realtà e a ricordarci sempre delle parole del Signore: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt. 28, 20). E ancora: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt. 24, 35).Un vescovo, che è sempre ricordato con affetto dalla Chiesa Sabina, Mons. Salvatore Boccaccio, aveva uno stemma episcopale molto particolare. Al centro dello stemma c’era un libro e scritto sul libro questa frase: «Primo il Vangelo». Questo è l’eterno programma della Chiesa: mi auguro e vi auguro di saperlo attuare sempre con intelligenza e concretezza.